Leggende, miti e tradizioni, fin dalle più antiche origini della nostra storia, hanno reso difficile individuare le origini della coltivazione della vigna, risulta di difficile individuazione. Comunque, al di là della poesia e del folklore, sicuramente la coltivazione delle vigne iniziò in tempi ben remoti.
In apparenza, l’uomo scoprì le proprietà ‘quasi’ magiche dell’uva fermentata già nel periodo Neolitico, infatti essa conferì al bevitore moderato la “saggia dimenticanza della vita”, così come scrisse lo stesso Dante.
In molti dubitano circa la provenienza della vite ovvero se le nostre viti, comunemente chiamate viti europee (Vitis Vinifera), debbano considerarsi come piante native o siano state importate in Italia tramite le migrazioni umane dall’Asia Minore.
Sicuramente, l’innesto e l’accoppiamento di varie viti ha permesso la nascita di innumerevoli varietà di viti.
Già nel quinto secolo avanti Cristo, Sofocle definiva l'Italia “terra prediletta dal Dio Bacco”.
Perfino al tempo di Omero, la Sicilia produceva grandi quantità di vini. Infatti, proprio un episodio dell’Odissea sembra puntare proprio sul vino, ovvero quando, vicino l’Etna, il ciclope Polifemo, accecato da Ulisse, cadde addormentato in un sonno profondo dopo aver bevuto una grande quantità di vino.
Finanche gli Etruschi, partiti dall’Est già forti di un’agricoltura parecchio evoluta e che comprendeva la fattura del vino, arrivati in Italia sulle coste del Mar Tirreno intorno all’anno 1000 DC, hanno contribuito alla diffusione delle viti. Tant’è che Plinio racconta di una statua scolpita da una singola pianta di vite in Populonia.
Non vi è dubbio che, fin dai tempi di Plinio il Vecchio, l’Italia fosse prima nella coltivazione della vite e nella produzione di vino, per qualità ed alta qualità. Infatti, nella sua “Historia Naturalis”, lo stesso Plinio parla di ben 195 varietà di vini, la cui metà era prodotta in Italia. Tra i vini più famosi dell’Antica Italia, troviamo a pieno titolo Il “Tauromenitanum”. Questo era un vino che veniva prodotto in epoca greco-romana nel territorio di Taorminese e, secondo Plinio, era un vino dalle straordinarie qualità, tanto che, secondo alcune testimonianze storiche, il tauromenitanum veniva usato in Sicilia anche nelle cerimonie in onore di Apollo.
La storia e gli storici ci tramandano anche riconoscimenti e attestazioni di qualità. Infatti, proprio attraverso Plinio, sappiamo che la "eugenia vitis di Taormina" venne trapiantata sui colli Albani nel Lazio, era la Tauromenitanum, coltivata come dicevamo nelle coste collinari di Taormina, ma oggi forse perduta. Esistono inoltre anche evidenti segni di un commercio particolarmente esteso, dove l'articolo principale era proprio il vino.
Le origini del vino nell’antica Roma
Fino all’epoca Repubblicana il vino poteva essere gustato solo dai maschi di età superiore ai trent’anni. Per le donne erano guai se trovate a bere: ad esempio, se baciando la moglie il marito avesse percepito il sapore del vino, sarebbe stato autorizzato a punire severamente la propria consorte per la “trasgressione”. Il divieto venne abolito da Giulio Cesare, e così Livia, moglie del primo Principe, Augusto, poté scrivere di aver raggiunto una notevole e sana vecchiezza grazie al vino che aveva allietato i suoi pasti.
Nel I secolo a.C. Diodoro Siculo scrive come, fin dai tempi più remoti, la viticoltura e la vinificazione fossero arti praticate nell'area della provincia di Messina, così come riscontrato nei reperti di età Micenea, rinvenuti soprattutto nelle Isole Eolie, che permettono di datare questa presenza al 14° secolo prima di Cristo.
Diodoro Siculo sosteneva che la vite crescesse spontaneamente in Italia e che non fosse stata importata da altri popoli. Essa era tenuta, dalle popolazioni autoctone, incolta, ossia allo stato selvatico. Anche Plinio, dal canto suo, riferisce che fin dal principio dell’antica Roma esistessero viti non potate.
I Romani raggiunsero una profonda conoscenza dei segreti della coltivazione della vite e della vinificazione, avendo appreso tali segreti da Etruschi, Greci e Cartaginesi e, proprio da questi ultimi, impararono a costruire aziende agricole razionali e capaci di produrre, con grandi guadagni. Come ben noto, i Romani avevano il senso del business, tutto doveva essere organizzato e produttivo.
Vennero così create piantagioni specializzate a conduzione schiavile, ove si coltivarono i grandi vini del passato.
Seguendo sempre le testimonianze di Plinio, apprendiamo che, fin dalla metà del primo secolo a. C., i vini italiani iniziarono a godere di fama uguale o superiore a quella dei migliori vini greci
L’espansione della viticoltura in Sicilia e nell’Italia meridionale, ben presto, determinò una contrazione delle importazioni di vino dall’Egeo e dalla Grecia e nel III sec. a.c. l’Italia non si limitò più a produrre per i fabbisogni interni, ma anche per l’esportazione e continuò a svilupparsi soprattutto nella prima metà del II sec a. c.
Fra gli scambi commerciali del Urbe, ricchissimo era il commercio del vino, come testimonia il Testaccio, una collina alta 35 metri e con un perimetro di 850 metri alla base, poco distante dal Tevere; la cui origine deriva dallo scarico dei cocci (in latino: testa) delle anfore vinarie e olearie gettati via dai mercati del vicino emporium. Nonostante siano trascorsi millenni e il mondo si sia completamente trasformato, Roma rimane circondata da vigneti e caratterizzata da una produzione di vini che continuano a essere richiesti e apprezzati soprattutto dai romani.
Il vino era parte essenziale di ogni banchetto, per lo più diluito con acqua calda o fredda, secondo i gusti e la stagione, e berlo puro non era considerato di buon gusto, sia perché le cene abbondavano di brindisi e libagioni, sia perché all’epoca erano maggiormente alcolici, sia perché a volte si aromatizzava o dolcificava il vino in vari modi, anche se Plinio sosteneva la superiorità del vino senza aggiunte. La birra era conosciuta ma poco stimata. D’altronde il suolo italico si chiamava allora Enotria, cioè terra dei vini.